La storia non va “condivisa”, va accettata
Ogni anno, quando si avvicina il 25 aprile, tornano, con una regolarità che ricorda sindromi premestruali reazionarie, le filippiche sul cosa dovrebbe realmente rappresentare la liberazione d’Italia. Sono espresse sempre dalle medesime persone. C’è il “professore di storia” che lavora in un’università ubicata in qualche città veneta in cui ci sono fontane per i bianchi e per i marchigiani; lui ci tiene a raccontarti l’importanza di una memoria condivisa per mantenere il 25 aprile una vera festa nazionale. Poi c’è l’editorialista censurato perché dice la verità sui partigiani, e sai che gli è stata chiusa la bocca perché te lo ricorda ogni singola sera quando lo ritrovi ospite di qualche talk show che ha lo stesso target di riferimento del Covid-19, perché appare in quarta di copertina nei suoi 8 libri Mondadori (ma 3 Einaudi), perché lo cita nelle sue rubriche su settimanali e quotidiani nazionali; ti racconta dell’importanza di una memoria condivisa sui poveri morti fascisti. Infine, c’è il figuro più respingente e inquietante, il “progressista”, quello che si auto-definisce di sinistra, ma, non si capisce come mai, durante le crisi si appella alla tua coscienza per ricordarti, tipo, che forse era Montanelli quello stuprato dalla dodicenne; lui vuole solo che cessi ogni tipo di discussione, che si smetta di guardare sempre al passato, che si instauri una vera memoria condivisa per il quieto vivere generale.
Ma che cazzo è la memoria condivisa?
Suona come una di quelle cose che esistono solo in Italia, come il matrimonio riparatore o la carriera di Paragone.
Vorrei vedere questa fine retorica proposta anche in altri Paesi. Tipo, perché non fermarci un attimo a riflettere anche sulle ragioni degli schiavisti nel sud degli Stati Uniti?
Cerchiamo di trovare una memoria condivisa: da una parte abbiamo 400 anni di umiliazioni, sevizie, torture, stupri e stragi, ma dall’altra sappiamo che i ventagli non si sventolano da soli. Quindi, perché dobbiamo ricordare solo la sofferenza degli schiavi neri, e non quella dei bianchi sudisti che sono morti in una guerra civile difendendo eroicamente il diritto a non piegarsi per raccogliere il cotone?
Forse, per una memoria ancora più condivisa, dovremmo ricordare il “sangue dei vinti” proprio durante il Black History Month dedicato ai soprusi subiti dagli afro-americani.
Anche in Italia, per condividere la memoria, la proposta che sentiamo più spesso è quella che vorrebbe un ricordo dei fascisti morti il giorno in cui viene commemorata la liberazione dal nazifascismo, che è un po’ come se durante la giornata in cui ricordiamo Falcone e Borsellino dedicassimo una preghiera a tutti quei giovani mafiosi che hanno perso la vita cercando di ucciderli.
Purtroppo queste proposte le possiamo sentire solo in Italia. Nessuno in Germania affezionato alla propria vita pubblica si azzarderebbe, oggi, di pensare ai nazisti aiutati a morire di cause naturali dal Mossad 20 anni dopo la guerra come povere vittime indifese, ma non qui. Da noi esiste un’ampia ed esilarante letteratura che ha trasformato in eroi romantici criminali di guerra, soldati combattenti e collaborazionisti morti addirittura durante o subito dopo la guerra.
Devo ammettere, però, che anche io rimango colpito leggendo le loro accorate ricostruzioni in cui viene narrato dell’ufficiale fascista catturato e fucilato sommariamente, del secondino torturatore strangolato senza processo e di altre vicende simili. Mi metto la mano davanti alla bocca e penso, “è scandaloso venire a conoscenza di tutto questo e sapere in quanti sono sopravvissuti”.
Perché in Italia la discussione non si concentra mai sul 99.999998% dei “vinti” che, a guerra finita, sono tornati alle loro vite di tutti i giorni prosperando e facendo lunghe e prestigiose carriere, ma sulla manciata di stronzi che in qualsiasi altro Paese sarebbero stati catturati, appesi per una corda e dimenticati dalla vergogna.
La gente costernata per degli aguzzini morti deve essere la stessa che piange alla fine di Django perché lo schiavo liberato spara anche alla donna disarmata che viveva in casa. Non esistono innocenti fra i complici conniventi di un crimine.
È curioso notare come quelli della memoria condivisa siano gli stessi che ti dicono che non bisogna rimuovere le statue dei criminali di guerra, perché ci servono “per studiare la storia”. Una posizione molto interessante, dato che per studiarla io ho sempre preferito usare i libri, molto più facili da consultare in borsa quando ti serve sapere dove si è combattuta una battaglia e non ti lasciano quella sgradevole sensazione di erezioni di bronzo e odio represso.
La memoria condivisa è per chi ha problemi ad accettare una semplice verità, accolta perfino dai tedeschi, ovvero che nella seconda guerra mondiale c’è stata una parte giusta e una sbagliata. Ma per gli italiani è una cosa impossibile da ammettere, ironicamente le persone che parlano di “derive politicamente corrette”, sono proprio quelle che necessitano di safe zone per processare settant’anni dopo che noi eravamo gli stronzi. La memoria condivisa è la bambola reborn della destra, qualcosa a cui devi aggrapparti e stringere a te quando non hai la capacità di sopportare la realtà.
Condividiamo una memoria condivisa sull'allunaggio! La NASA dice che siamo arrivati sulla luna, ma Mimmo su Telegram soffre molto perché è convinto che non sia vero. Diciamo che l'Apollo 11 è atterrato in Basilicata — sarebbe stato un grande passo per qualsiasi uomo arrivarci nel 1969 e siamo pari.
L’unica, vera, memoria condivisa è questa: l’Italia è il paese in cui non sei una vittima se denunci lo stupro dopo 8 giorni, ma lo sei se ti ammazzano dopo 20 anni di dittatura.
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